All’ombra dei giganti – 3

Cari amici, ben ritrovati. Dopo aver saltato un giro di giostra, eccoci di nuovo qui. Ripetiamo, per chi si fosse sintonizzato per la prima volta con questa allegra compagnia, che siamo una banda di manigoldi esperta nel furto con destrezza di gemme letterarie d’autore. La nostra specialità sono le dimore dei grandi della narrativa del brivido.

Questa volta ci siamo messi in testa di trovare risposta a uno dei quesiti più diffusi tra gli aspiranti scrittori. Cosa vuol dire scrivere una storia che funziona? Come si riesce a colpire l’attenzione di un editor e sperare di essere pubblicato? Beh, miei cari, quello che stiamo per dire non è di certo un segreto: tutti sanno che chi ben comincia è già a metà dell’opera. Azzeccare l’incipit, ovvero il primo capitolo, è la prima grande sfida che si trova di fronte chiunque abbia deciso di sfidare la pagina bianca. In un thriller più che in ogni altro genere, l’inizio deve essere forte, clamoroso, unico.

Ma saperlo non basta, bisogna anche riuscire a farlo.

E allora, senza perdere altro tempo in inutili chiacchiere, direi di metterci in cammino. Armati come sempre della nostra piccola torcia a dinamo e del caro taccuino nero, ci addentriamo furtivi nelle dimore dei giganti a caccia di oggetti preziosi. Questa volta non dovremo fare molta strada: quello che ci interessa è l’arredo degli ingressi.

Da chi cominciamo, però? Abbiamo veramente l’imbarazzo della scelta. Stephen King, ad esempio, ci accoglie così nel suo Mucchio d’ossa: “In un giorno caldissimo dell’agosto 1994, mia moglie mi disse che scendeva al Rite Aid di Derry a prendere una ricarica per il suo inalatore perché la sua era esaurita…. Mi soffiò un bacio dal palmo della mano e usci. La rividi in TV. È cosi che si identificano i morti qui a Derry…”. Rimango sempre impressionato dalla capacità di alcuni scrittori di creare scene che iniziano come fotografie di apparente quotidianità che all’improvviso vengono disintegrate da un lampo accecante, un’esplosione di dinamite sotto il morbido cuscino che ci teniamo stretti stretti tra le braccia.

Un grande scrittore di casa nostra, invece, ci spiega che talvolta un buon prologo può creare la tensione giusta e stimolare l’appetito del lettore. Scerbanenco in I milanesi ammazzano al sabato, lo fa così: “Con la civiltà di massa oggi viene fuori anche la criminalità di massa. Oggi la polizia non può più ricercare un singolo delinquente, indagare su un singolo caso, oggi si fanno dei rastrellamenti con le reti a strascico dei vari nuclei di polizia….si pesca in questo lutulento mare del crimine e della sozzeria e vengono fuori repellenti pesci piccoli e grossi, e si fa così pulizia. Ma non c’era tempo di cercare una ragazza alta quasi due metri, del peso di un quintale, minorata di mente, scomparsa da casa, vanificata, in una sterminata Milano dove ogni giorno qualcuno scompare e non si ha possibilità di ritrovarlo.” Ammettiamolo: a chi non verrebbe voglia di scoprire perché questa enigmatica e insolita protagonista è sparita?

Beh, almeno una cosa è chiara: fin dalle prime righe dobbiamo convincere il lettore che finalmente ha tra le mani quello di cui è in cerca da tanto tempo. Dobbiamo instillargli il dubbio che sarebbe un peccato rimettere il nostro volume sullo scaffale. Lo deve portare a casa. Punto e basta.

Qualcuno della gang chiede se tutti questi ingredienti potrebbero essere contenuti nel racconto di un incubo. Si può creare un buon incipit utilizzando una visione onirica? Proviamo a vedere come Dean Koonz ci riesce in Fuoco freddo: “Già prima di ciò che accadde nel supermercato, Jim Ironheart avrebbe dovuto capire che c’erano guai in arrivo. Quella notte aveva fatto un sogno: era in un campo coltivato e fuggiva, inseguito da uno stormo di grossi uccelli neri che gli volavano attorno strillando in un turbine di ali e lo colpivano con i becchi ricurvi, affilati come bisturi da chirurgo. Quando si svegliò, senza fiato, uscì sul balcone così com’era, con addosso i calzoni del pigiama, per respirare un po’ d’aria fresca. Ma alle nove e mezzo del mattino la temperatura, che aveva già superato i trenta gradi, non fece che aggravare la sensazione di soffocamento di quando si era svegliato.” Certo, confezionare un sogno in così poche righe, non è da tutti, soprattutto con quei dettagli quasi solo apparentemente buttati lì a caso, come quell’inquietante volo d’ali fatto di strilla, di turbinio d’aria e agghiaccianti colpi di bisturi.

C’è un altro autore (questo assai più giovane dei precedenti, ma ugualmente intrigante), che nella Terapia fin dalla prima frase riesce a farci capire a cosa andremo incontro. È Sebastian Fitzek: “Dopo mezz’ora capì che non avrebbe mai più rivisto sua figlia. La bambina aveva aperto la porta, lo aveva guardato ancora per un istante, poi si era voltata ed era entrata dall’anziano medico. Josephine, la sua piccola di dodici anni, non sarebbe tornata mai più da lui. Ne era certo….Questa consapevolezza lo investì come lo schianto improvviso e violento di un incidente stradale.”

Fitzek non è certo il primo a dilettarsi con gli effetti speciali presentati fin dalla porta di casa. Una per tutti la grande Anne Rice, che in L’ora delle streghe apre così: “Il dottore si svegliò in preda al terrore. Aveva sognato ancora una volta la vecchia casa di New Orleans. Aveva visto la donna sulla sedia a dondolo. Aveva visto l’uomo dagli occhi castani. E ancora adesso, nella tranquilla stanza d’albergo di New York, riviveva lo stesso inquietante disorientamento. Aveva parlato di nuovo con l’uomo dagli occhi castani. Sì, aiutala. No, è soltanto un sogno e voglio uscirne.”

Tutto questo è molto convincente, ma dobbiamo diffidare di chi ci offre ricette vincenti e soluzioni preconfezionate. Sappiamo anche che non c’è un modo giusto e unico per iniziare una storia, dipende molto dal gusto personale. A volte basta tratteggiare il personaggio principale, altre entrare nel vivo di un’azione particolarmente serrata e ritmata, oppure definire la cornice generale della narrazione, o ancora immergere il lettore in un’ambientazione nuova, strana, affascinante. È un po’ quello che riesce a un autore che non appartiene al mondo del thriller e del giallo, ma che può aiutarci molto bene a illustrare questa nostra ultima intuizione. Bastano poche parole a Philip Dick nell’incipit di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? per proiettarci dal lontano 1968 a un futuro fantascientifico: “Una gioviale scossetta elettrica, trasmessa dalla sveglia automatica incorporata nel modulatore d’umore che si trovava vicino al letto, destò Rick Deckard. Sorpreso — lo sorprendeva sempre il trovarsi sveglio senza alcun preavviso — si alzò dal letto con indosso il pigiama multicolore e si stiracchiò.”

Un po’ ovunque, le opinioni e i suggerimenti in merito all’incipit si sprecano, comprese quelle relative alla scelta del momento più opportuno per la realizzazione del primo capitolo. C’è ad esempio qualcuno che sostiene di dedicarvisi solo una volta terminata la scrittura dell’intera storia, altri quando ne abbiano definito l’architettura generale. Tutto può essere, come il fatto che la pepita rimanga subito nel setaccio: le prime frasi, magari proprio quelle scritte di getto senza starci a pensare troppo, potrebbero essere talmente buone da non dover subire alcuna alterazione o ripensamento.

Se esista un modo più giusto dell’altro, nessuno può dirlo. Che poi, come sappiamo, di giusto, nella vita c’è solo l’amore. E la morte.

Siamo giunti purtroppo alla fine di questa nostra notte di rapina. Di sicuro non abbiamo esaurito la questione, come invece le righe a nostra disposizione. Chissà, magari un giorno ci torneremo sopra, perché la cosa si è rivelata molto più interessante e complessa del previsto. Qualcosa nel fondo dei nostri sacchi abbiamo messo, e anche stavolta possiamo ritenerci soddisfatti. Ma, come siamo abituati a dire, siamo sempre in tempo per migliorare: la nostra fame di tesori e meraviglie letterarie non dovrà mai essere sazia. Di corsa a leggere, allora. Leggere e scrivere, and back again.

 

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